MARTINA DELLA VALLE

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26/10/2015


ARTRIBUNE INTERVIEW
25|10|2015


Martina Della Valle. Intervista da Unseen Photo Fair

È da poco terminata la quinta edizione di Unseen Photo Fair di Amsterdam. Tra i nuovi talenti, quattro gli italiani presenti, tra cui Martina Della Valle: classe 1981, è una giovane fotografa che lavora a Milano, Firenze e Berlino. Collezionista d'oggetti, affascinata dagli objet trouvé, per lei la fotografia è ricerca inattesa e ricostruzione di storie.

Ad Unseen Photo Fair 2015 eri presente insieme ad altri tre artisti italiani, rappresentata dalla Metronom di Modena. Com’e nata la collaborazione con la galleria?
La collaborazione con Metronom è iniziata quattro anni fa in occasione di Time Dust(2011), la mia personale curata da Marinella Paderni, ed è proseguita attraverso varie occasioni fino all’esperienza di Unseen.

In fiera hai portato The Post-it Book (2015) e l’inedito Wabi-Sabi (2015). Ce li racconti?
Sono due lavori apparentemente molto diversi ma accomunati da percorsi affini. The Post-it Book è costituito da una serie fotografica e da un quaderno fotografico in edizione limitata, nato dall’incontro fortuito con un libro sulla fotografia contemporanea, lasciato o perso da qualcuno sul pullman Milano-Malpensa. Sfogliando le pagine, ho scoperto che tutte le immagini di corpi nudi erano precariamente censurate da un post-it giallo. Questo meticoloso lavoro di selezione e cancellazione ha fatto scaturire una riflessione sulla soggettività dell’interpretazione del messaggio fotografico, oltre alla fascinazione per la traccia lasciata dall’ignoto proprietario e la curiosità sulle ragioni che l’hanno spinto a quel gesto.
Il mio intervento si è limitato a documentare l’avvenuto, rifotografando le parti del libro in cui compare il post-it giallo, citando e volendo rendere omaggio alle immagini di altri artisti, talvolta comunque riconoscibili ma “mutilate”.


E Wabi-Sabi?
È il progetto al quale sto tuttora lavorando, che prende spunto da una collezione di vecchi negativi trovata in Giappone. Le immagini, di formati vari, sono per lo più still-life di composizioni floreali di ikebana.
La prima fase del lavoro mira ad appropriarsi del materiale trovato, presentarlo sotto forma di stampe a contatto per studiarne i contenuti formali e narrativi e dar vita a nuove forme di visualizzazione.


Due progetti nati quindi da un fattore casuale sul quale agisci e crei una narrazione. Quali tipo di storie preferisci? Nell’arte esiste sempre un tasso di imprevedibilità?
Sì, spesso la mia ricerca inizia da incontri e ritrovamenti inattesi con (s)oggetti che hanno storie da raccontare sul loro trascorso o su realtà a me lontane, che tento di ricostruire. È successo per The Post-it Book come per Wabi-Sabi, e in forma diversa anche per Mein Alles (2013), Time Dust e altre esperienze precedenti.
Diciamo che l’imprevedibilità ha un ruolo importante nell’impulso iniziale che genera un progetto e si trasforma solitamente in una sorta di ricostruzione immaginativa di realtà intuite.
Parliamo del Wabi-Sabi e della bellezza imperfetta…

Il termine Wabi-Sabi rappresenta, nella cultura estetica giapponese, il mondo di ciò che deve la sua bellezza all’imperfezione e all’unicità che ne deriva. In questo rientrano tutte le creazioni artigianali e gli elementi naturali, imperfetti e irripetibili per eccellenza. Sono sempre molto attratta da ciò che mostra sulla sua pelle le crepe e le tracce del vissuto e la patina del tempo.
Inoltre da sempre mi sono mossa sul confine del medium fotografico, giocando ad esempio con il concetto di edizione e copia. Spesso i miei lavori sono tirature di pochi esemplari che comunque mantengono la loro unicità. Per questo ho scelto di lavorare spesso con la tecnica analogica del rayogramma e la stampa a contatto, sia per Wabi-Sabi che per Mein Alles. Il fatto di creare in camera oscura la composizione manualmente rende il processo in parte incontrollabile e ogni volta diverso dal precedente, e per questo nuovamente interessante.


Oltre che pretesto per raccontare storie, i tuoi lavori divengono anche un’occasione per parlare del linguaggio del mezzo stesso. In Post-it Book si trova il nudo, antico genere fotografico, il voyeurismo e lo sguardo, come lo svelamento e la traccia (un libro lasciato dietro di sé), veri e propri processi di costruzione dell’immagine analogica. In Wabi-Sabi la composizione e l’imperfezione. La stessa idea del trovare, lo scontro io/oggetto-realtà include in sé una relazione fotografica io/ mondo. Possiamo parlare di meta-fotografia? Volontaria o involontaria?
Quelli che hai citato sono sicuramente tutti temi che toccano la mia ricerca, ma stento a delineare in modo chiaro i confini della fotografia e a dare quindi una definizione troppo netta al mio lavoro.

Una collezionista di oggetti e storie e, forse, più di tutto, di memorie e di spazi temporali. Penso al toccante Mein Alles. Ci parli di questo progetto?
Sono effettivamente una collezionista compulsiva, e spesso la fotografia rappresenta per me un modo per archiviare ciò che per ragioni di spazio o tempo è incollezionabile. Non ho temi specifici, ma colleziono oggetti anche di poco valore che ritengo evocativi. Mein Alles è una riflessione visiva sulla corrispondenza avvenuta nel 1860 fra Anton e Mathilda, amanti clandestini.
Ho collaborato Theodor Schmidt, collezionista di diari del XIX secolo e studioso di germanistica, che ha ritrovato e ricomposto la corrispondenza. Una serie di poster fotografici stampati a contatto danno forma alle parole e a un “Non-ti-scordar-di-me” contenuto nelle lettere; un vinile fa eco alla rilettura del testo.


Molto affascinante è anche Framed Memories (on going), una serie di immagini raccolte in giro per il mondo e presentate in modo tale da privarne in parte la visione. Sono infatti coperte da un passe-partout nero che ne lascia intravedere solo un frammento. Disse una volta Marcel Duchamp: “È lo sguardo che fa l’opera”…
Sì, decisamente nel mio caso è lo sguardo, il mio ma anche quello di chi fruisce il lavoro che, insieme al processo di creazione, compone l’opera. In Framed Memories, come anche in The Post-it Book, è basilare l’interazione del mio lavoro con lo sguardo dell’osservatore che svela a suo modo la maschera.

Tornando ad Unseen Photo Fair 2015, Hulshoff Pol ha commentato a riguardo: “Gli artisti stanno ampliando i confini della fotografia e creano crossover con altri mezzi espressivi, come la pittura e la scultura. […] La fotografia è diventata un materiale con cui sperimentare e il processo di lavoro e sempre più in primo piano. Inoltre notiamo un ritorno, dopo il boom del digitale, alla manualità e alle competenze artigianali. Un’altra tendenza diffusa e quella dell’astrazione”. Cosa ne pensi?
Il mio approccio è sempre stato questo e credo che adesso sia quanto mai interessante sperimentare e oltrepassare i confini. Ho scelto la fotografia come linguaggio primario, che ho sempre “maltrattato” giocando a forzarne i limiti tecnici e rendendo il processo ibrido e impuro.

Eleonora Milner

www.artribune.com/2015/10
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