ARTRIBUNE INTERVIEW
Martina
Della Valle. Intervista da Unseen Photo Fair
È
da poco terminata la quinta edizione di Unseen Photo Fair di
Amsterdam. Tra i nuovi talenti, quattro gli italiani presenti, tra
cui Martina Della Valle: classe 1981, è una giovane fotografa che
lavora a Milano, Firenze e Berlino. Collezionista d'oggetti,
affascinata dagli objet trouvé, per lei la fotografia è ricerca
inattesa e ricostruzione di storie.
Ad Unseen
Photo Fair 2015 eri presente insieme ad altri tre artisti
italiani, rappresentata dalla Metronom di Modena. Com’e nata la
collaborazione con la galleria?
La
collaborazione con Metronom è iniziata quattro anni fa in occasione
di Time Dust(2011), la mia personale curata da Marinella
Paderni, ed è proseguita attraverso varie occasioni fino
all’esperienza di Unseen.
In
fiera hai portato The Post-it Book (2015) e
l’inedito Wabi-Sabi (2015). Ce li racconti?
Sono due
lavori apparentemente molto diversi ma accomunati da percorsi
affini. The Post-it Book è costituito da una serie
fotografica e da un quaderno fotografico in edizione limitata, nato
dall’incontro fortuito con un libro sulla fotografia contemporanea,
lasciato o perso da qualcuno sul pullman Milano-Malpensa. Sfogliando
le pagine, ho scoperto che tutte le immagini di corpi nudi erano
precariamente censurate da un post-it giallo. Questo meticoloso
lavoro di selezione e cancellazione ha fatto scaturire una
riflessione sulla soggettività dell’interpretazione del messaggio
fotografico, oltre alla fascinazione per la traccia lasciata
dall’ignoto proprietario e la curiosità sulle ragioni che l’hanno
spinto a quel gesto.
Il mio intervento si è limitato a
documentare l’avvenuto, rifotografando le parti del libro in cui
compare il post-it giallo, citando e volendo rendere omaggio alle
immagini di altri artisti, talvolta comunque riconoscibili ma
“mutilate”.
E Wabi-Sabi?
È
il progetto al quale sto tuttora lavorando, che prende spunto da una
collezione di vecchi negativi trovata in Giappone. Le immagini, di
formati vari, sono per lo più still-life di composizioni floreali di
ikebana.
La prima fase del lavoro mira ad appropriarsi del
materiale trovato, presentarlo sotto forma di stampe a contatto per
studiarne i contenuti formali e narrativi e dar vita a nuove forme di
visualizzazione.
Due
progetti nati quindi da un fattore casuale sul quale agisci e crei
una narrazione. Quali tipo di storie preferisci? Nell’arte esiste
sempre un tasso di imprevedibilità?
Sì, spesso la mia ricerca
inizia da incontri e ritrovamenti inattesi con (s)oggetti che hanno
storie da raccontare sul loro trascorso o su realtà a me lontane,
che tento di ricostruire. È successo per The Post-it Book come
per Wabi-Sabi, e in forma diversa anche per Mein
Alles (2013), Time Dust e altre esperienze precedenti.
Diciamo
che l’imprevedibilità ha un ruolo importante nell’impulso
iniziale che genera un progetto e si trasforma solitamente in una
sorta di ricostruzione immaginativa di realtà intuite.
Parliamo
del Wabi-Sabi e della bellezza imperfetta…
Il
termine Wabi-Sabi rappresenta, nella cultura estetica
giapponese, il mondo di ciò che deve la sua bellezza
all’imperfezione e all’unicità che ne deriva. In questo
rientrano tutte le creazioni artigianali e gli elementi naturali,
imperfetti e irripetibili per eccellenza. Sono sempre molto attratta
da ciò che mostra sulla sua pelle le crepe e le tracce del vissuto e
la patina del tempo.
Inoltre da sempre mi sono mossa sul confine
del medium fotografico, giocando ad esempio con il concetto di
edizione e copia. Spesso i miei lavori sono tirature di pochi
esemplari che comunque mantengono la loro unicità. Per questo ho
scelto di lavorare spesso con la tecnica analogica del rayogramma e
la stampa a contatto, sia per Wabi-Sabi che per Mein
Alles. Il fatto di creare in camera oscura la composizione
manualmente rende il processo in parte incontrollabile e ogni volta
diverso dal precedente, e per questo nuovamente interessante.
Oltre
che pretesto per raccontare storie, i tuoi lavori divengono anche
un’occasione per parlare del linguaggio del mezzo stesso.
In Post-it Book si trova il nudo, antico genere
fotografico, il voyeurismo e lo sguardo, come lo svelamento e la
traccia (un libro lasciato dietro di sé), veri e propri processi di
costruzione dell’immagine analogica. In Wabi-Sabi la
composizione e l’imperfezione. La stessa idea del trovare, lo
scontro io/oggetto-realtà include in sé una relazione fotografica
io/ mondo. Possiamo parlare di meta-fotografia? Volontaria o
involontaria?
Quelli che hai citato sono sicuramente tutti temi
che toccano la mia ricerca, ma stento a delineare in modo chiaro i
confini della fotografia e a dare quindi una definizione troppo netta
al mio lavoro.
Una
collezionista di oggetti e storie e, forse, più di tutto, di memorie
e di spazi temporali. Penso al toccante Mein Alles. Ci parli di
questo progetto?
Sono effettivamente una collezionista compulsiva,
e spesso la fotografia rappresenta per me un modo per archiviare ciò
che per ragioni di spazio o tempo è incollezionabile. Non ho temi
specifici, ma colleziono oggetti anche di poco valore che ritengo
evocativi. Mein Alles è una riflessione visiva sulla
corrispondenza avvenuta nel 1860 fra Anton e Mathilda, amanti
clandestini.
Ho collaborato Theodor Schmidt, collezionista di
diari del XIX secolo e studioso di germanistica, che ha ritrovato e
ricomposto la corrispondenza. Una serie di poster fotografici
stampati a contatto danno forma alle parole e a un
“Non-ti-scordar-di-me” contenuto nelle lettere; un vinile fa eco
alla rilettura del testo.
Molto
affascinante è anche Framed Memories (on going), una serie
di immagini raccolte in giro per il mondo e presentate in modo tale
da privarne in parte la visione. Sono infatti coperte da un
passe-partout nero che ne lascia intravedere solo un frammento. Disse
una volta Marcel Duchamp: “È lo sguardo che fa l’opera”…
Sì,
decisamente nel mio caso è lo sguardo, il mio ma anche quello di chi
fruisce il lavoro che, insieme al processo di creazione, compone
l’opera. In Framed Memories, come anche in The Post-it
Book, è basilare l’interazione del mio lavoro con lo sguardo
dell’osservatore che svela a suo modo la maschera.
Tornando
ad Unseen Photo Fair 2015, Hulshoff Pol ha commentato a
riguardo: “Gli artisti stanno ampliando i confini della fotografia
e creano crossover con altri mezzi espressivi, come la pittura e la
scultura. […] La fotografia è diventata un materiale con cui
sperimentare e il processo di lavoro e sempre più in primo piano.
Inoltre notiamo un ritorno, dopo il boom del digitale, alla manualità
e alle competenze artigianali. Un’altra tendenza diffusa e quella
dell’astrazione”. Cosa ne pensi?
Il mio approccio è sempre
stato questo e credo che adesso sia quanto mai interessante
sperimentare e oltrepassare i confini. Ho scelto la fotografia come
linguaggio primario, che ho sempre “maltrattato” giocando a
forzarne i limiti tecnici e rendendo il processo ibrido e impuro.
Eleonora
Milner
www.artribune.com/2015/10
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